Grazie alle notizie economiche più rilevanti di fine giugno 2023 molti hanno scoperto con una decente dose di sorpresa che Kebhouze, l’infuocata catena di Kebab dell’influencer e star Gianluca Vacchi, continua ad inanellare perdite.
Per l’occasione e per comprendere le motivazioni di questo caso di studio al negativo, il Corriere della Sera di Bologna ha intervistato Francesco Galvani, CEO di Deep Marketing e insegnante/esperto di marketing strategico e branding. L’articolo originale con un estratto dell’intervista è disponibile sul sito del giornale:
Qui riportiamo l’intero intervento di Galvani, che propone concetti aziendali importanti di branding, crescita degli small business, strategia di marketing. Siamo convinti possa darvi stimoli interessanti.
Che cosa ha portato a suo avviso a un “tonfo” tale nonostante la fama di Gianluca Vacchi?
La domanda è intrigante da molti punti di vista. Mi occupo di marketing strategico e branding, quindi in questa analisi intendo rimanere nei confini della mia disciplina. Proviamo ad arrivare alla risposta considerando alcuni elementi interessanti.
Vacchi è famoso? Ovviamente sì. 25 milioni di follower su Instagram non sono bazzecole, e ha una capacità unica di attirare l’attenzione dei media e delle folle adoranti. Il “vacchismo” è un vero approccio alla vita e alla moda. Forse senza accorgersene, questo influencer ha preso una buona parte dell’estetica e del simbolismo dell’uomo italiano “da esportazione” che troveresti al Pitti Uomo e l’ha reso alla portata della gente comune, aggiungendoci una spruzzata di atmosfere latine. Con uno slogan come “enjoy”, comprensibile anche da chi non parla inglese.
Quindi come personaggio pubblico Vacchi ha vinto. Ci sa fare.
Ma il fatto di essere famosissimi oltre ogni ragionevole dubbio ha dei benefici quando si deve trasferire la nostra fama ai nostri business? Intendo business non collegabili facilmente alla nostra persona. È evidente che l’attività di testimonial di Chiara Ferragni è vincente: semplicemente lei vi trasferisce la sua fama. E viene ben pagata, coerentemente col suo capitale di popolarità. Ma questo trasferimento si applica anche alle aziende che non hanno letteralmente il nostro bel nome sopra?
Non per forza. Anzi, decisamente c’è poca correlazione. Non è un mistero che Crazy Pizza di Briatore abbia avuto due bilanci in rosso. Eppure quanta visibilità ha avuto? Qualcuno ha il coraggio di dirmi in faccia che non è stato un tale caso mediatico da ottenere milioni e milioni di euro di copertura gratuita su TV e giornali? Vuole sapere quanti clienti della mia agenzia vorrebbero tutto questo lavoro di PR gratis? TUTTI, è un sogno! Nella testa di tantissime persone è ben memorizzato il collegamento tra “Briatore” e “Crazy Pizza”, eppure la società non sembra riuscire a portare utili.
Il problema è che la tua popolarità può essere sì trasferita a un’altra azienda per supportarla, ma praticamente solo quando questo fa notizia perché è una novità. Cioè tipicamente al lancio della nuova impresa. Meglio ancora se dai argomenti per accendere fervide discussioni, come una pizza a 80 euro. Una volta che l’informazione è stata assorbita dal cervello delle persone, non è più una informazione rilevante. Sì, tantissimi sanno inconsciamente che Crazy Pizza è di Briatore, ma dopo le file delle prime settimane, la cosa perde di valore, l’interesse cala e non diventa più un vero motivo di scelta rispetto a una pizzeria che magari costa meno ed è più buona. Briatore in effetti non è mai stato famoso come pizzaiolo o mentore di pizzaioli, quindi il cervello delle persone non trova valore nel fatto che lui partecipi alle finanze di una catena di pizzerie.
Quindi arriviamo al punto: la fama di Vacchi ha supportato sicuramente il lancio di Kebhouze, ma sul lungo termine non porta alcun valore particolare al business. Sia perché la società si chiama “Kebhouze” e non “Vacchi’s Kebap”, sia perché non esiste un collegamento pregresso nella mente della maggior parte delle persone che metta Gianluca Vacchi nella categoria del fast-food. Perché il suo nome dovrebbe essere un valore se non ci azzecca nulla? Lo è solo al lancio perché è una novità.
Ma le novità vengono “assorbite” dalla noiosa quotidianità.
Ci sono stati a suo avviso degli errori nella comunicazione/brand identity/grafica fin dal suo lancio?
Questa domanda è più facile, apprezzo molto! 😉
Il lancio del brand ovviamente ha funzionato. Vacchi ha (come abbiamo visto) usato la sua popolarità per ottenere una montagna di visibilità, e ha sfruttato il trend delle start-up per piacere anche a quel mondo, sempre facilmente elettrizzabile. Non parliamo poi della sensazione di liberazione delle persone dopo il momento più buio della pandemia. Oltre ai testi di un famoso brano estivo (“…fare tutto quello che non si poteva…”), l’euforia è passata anche dal mondo del commercio. Il lancio di un nuovo progetto di ristorazione così ambizioso in quel periodo specifico ha goduto di una narrazione eccezionalmente coerente. Chapeau!
Ma quando i festeggiamenti finiscono, bisogna avere dei fondamentali di marketing strategico e branding per far tintinnare le casse, e in Kebhouze questi fondamentali sono un po’ deboli. Secondo la mia modesta opinione ci sono due problemi principali:
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Il trend dei burger premium ci ha messo almeno due decadi a maturare. E non è stato consolidato da una sola azienda. È stato costruito da maree di società, esperti, foodie, fiere, discussioni, incontri, strette di mano, operazioni di marketing sapienti. Un brulicare di attori che, pian piano, ha convinto le persone che è assolutamente sensato e figo spendere ben più di 10 euro per un cibo povero come un hamburger. Ha convinto le persone a essere sensibili alle materie prime, alle location, al servizio, al tipo di posate, al tipo di frittura per le patatine di contorno. Ma c’è voluta una generazione e tantissimi soldi e tanta fatica di tanti attori.
Non può fare la stessa cosa una sola azienda. Non in pochi anni. La dirigenza di Kebhouze ha a mio avviso sottostimato quanto sia sostanzialmente impossibile per una sola società (per di più piccola) creare da sola un nuovo mercato come quello dei kebab premium. O ha ritenuto che i burger premium avessero aperto la strada, e che quindi i kebab potessero sfruttare la fatica già fatta da un altro cibo mettendosi nel solco.
Due forme di ottimismo tipiche degli imprenditori sempre pericolose e che personalmente sconsiglio a chiunque. Può andarti bene, ma è raro. Quando annuso che un potenziale cliente intende creare un nuovo mercato cerco immediatamente di fargli capire quanto sia dispendioso e quante risorse e anni servano per farlo, ammesso ci si riesca. Piuttosto, cerco di trovare con lui una specializzazione in un mercato esistente, con tanti potenziali clienti e buona marginalità. Non è ovviamente scienza missilistica, ma una versione avanzata del “buonsenso dei bottegai che campano bene”.
A suo avviso è un caso se i grandi fondi di venture capital americani investono solo in società che offrono servizi a un mercato esistente e potenzialmente enorme?
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L’immagine coordinata, la visual identity e il logo sono a mio avviso discutibili. Quel che spesso non si considera è che gli umani sono una specie visiva, diamo una priorità esagerata (a tratti eccessiva) agli elementi grafici. Un brand può avere un nome stupendo e fare cose pazzesche, ma se logo e identità visiva sono sbagliati o amatoriali, ne soffrirà pesantemente. Non se ne discute. È forse il peggiore errore al mondo farsi disegnare il logo dal “cugggino”. E se abbiamo un negozio fisico, è pericolosissimo perché i sensi dei clienti saranno invasi da una comunicazione errata.
Kebhouze ovviamente ha pagato dei professionisti, lo si nota. Però il risultato ha troppi elementi che mi lasciano perplesso. Possiedo un’agenzia, quindi so perfettamente che i creativi a volte creano lavori di qualità ma poi bisogna accontentare il cliente, e non sempre è facile trovare la quadra, specie con clienti molto “carismatici”. Quindi non mi permetto di giudicare in alcun modo i colleghi che hanno lavorato per Kebhouze. È sempre un misto di fattori.
Ma non posso negare quanto sia di difficile lettura, per esempio, un testo in blu scuro su sfondo magenta come si presenta sul sito di Kebhouze, per di più con un carattere alto, stretto e grassetto. In un sito che di suo non convince troppo. Non posso negare che le foto degli interni dei negozi mostrino scelte grafiche sovrastimolanti e caotiche. O che il menu abbia davvero troppi colori, urli parecchio, tutto sia bold e ci siano continui rimandi per semplificare un concept un po’ anarchico. Nessuna hamburgeria costosa comunica così. Ci sarà un motivo.
Mi piace il rosso, ma l’abuso di un rosso così brillante è un altro problema perché aggredisce il nostro occhio e abbassa il livello percepito. La mascotte è divertente ma non si capisce cosa c’entri la coroncina, asset di brand di Burger King e che non puoi semplicemente far diventare tuo a comando: devi costruire i TUOI elementi grafici di marca per fidelizzare i clienti. Non mi è poi del tutto chiara la scelta stilistica così infantile per il personaggio, la vedrei meglio per una proposta gastronomica in stile “grosso locale attrezzato per famiglie”.
Ok la gioventù, la spensieratezza e la felicità, ok “enjoy”. Ma qui si sta parlando di un kebab da 14 euro. Mi aspetto una scelta stilistica coerente col livello premium del prodotto. Altrimenti tutta la narrazione e la coerenza del brand si indeboliscono e la gente si chiede dieci volte se quei soldi vadano spesi.
È stato a suo parere un errore aver aperto più sedi?
A meno di categorie particolari, le evidenze del marketing sono chiare: in ogni mercato che funziona ci sono mediamente pochi super-brand impegnati attivamente a mantenere e ad aumentare la loro quota di mercato e il proprio fatturato. Accanto a questi, ci sono tanti piccoli marchi specializzati che dovrebbero prima di tutto pensare ai margini, e in seconda istanza focalizzarsi sul continuare ad acquisire clienti per compensare la perdita naturale di clientela e per crescere in modo organico. Un po’ alla volta.
Kebhouze è ovviamente una startup e un nuovo brand, quindi rientra nel secondo gruppo. In questo caso è sensato prima di tutto focalizzarsi sul far funzionare benissimo una o poche sedi principali. Da vedere quasi come un test. Devi trovare la quadra lì. Cioè avere un business model in poche location che ti porti utili in modo robusto, che sappia resistere agli urti del mercato e a tutti i problemi del mondo reale, che non abbia buchi di offerta, che sappia avere un buon tasso di acquisizione di nuovi clienti con marketing di qualità. Questo non toglie del tutto i rischi, ma li abbassa.
Nel momento in cui hai un motore che funziona in piccolo, e se i soldi lo permettono, scali. Cioè apri nuove sedi, sempre un po’ alla volta. Ma lo fai dopo, non prima.
Esistono dei casi specifici (penso ad esempio ad alcuni segmenti del tech e fintech) in cui la strategia di “crescere rapidamente bruciando cassa fino a diventare leader di mercato” può essere valutata. Ma devi avere una quantità enorme di budget e investitori, operare in un settore ad alta espansione, e la possibilità reale di diventare leader di mercato. Nessuna di queste tre assunzioni mi sembra ragionevole per Kebhouze e il suo segmento.
Quindi non posso condividere la corsa all’apertura di tante sedi così presto.
Una formica che cade dal decimo piano non si fa male. Una mucca sì.
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